Muore dopo il concorso, il prezzo del ruolo, parla il mondo della scuola: 'Partenza all’alba, zero tutele, morte in galleria'
Docente morta dopo il concorso, colleghi denunciano condizioni disumane per i precari tra viaggi notturni, prove senza sostegno e rischi per la salute


La morte di Alessandra, docente precaria di 54 anni, ha scosso il mondo della scuola. Rientrava da una prova orale del concorso quando ha perso la vita in un incidente stradale. La tragedia ha riaperto il dibattito sulle condizioni imposte ai docenti precari, tra viaggi massacranti, notti insonni e prove selettive senza tutele
La tragedia e l’indignazione collettiva
Alessandra, 54 anni, insegnante precaria del liceo Rocci di Fara in Sabina, è morta il 12 giugno mentre rientrava da Campobasso, dove aveva sostenuto la prova orale per il concorso docenti A040. L’incidente è avvenuto lungo la Statale 85, nella galleria Trinità, quando la sua auto ha invaso la corsia opposta e si è scontrata con un furgone. Una tragedia che ha scosso profondamente la comunità scolastica, generando una forte reazione da parte dei colleghi, che hanno scritto una lettera aperta al Ministro Valditara per denunciare un sistema che “precarizza la vita”.
I docenti sottolineano che se anche non ci fosse un nesso diretto, le condizioni lavorative hanno sicuramente contribuito a rendere insostenibile la vita della collega. La lettera è stata definita “profonda e sincera” anche dal deputato Gianni Cuperlo. Le accuse sono chiare: trasferte a proprie spese, zero rimborsi, orari impossibili e pressioni continue per prove che si tengono lontano dalla residenza.
I racconti di chi rischia ogni giorno
Le testimonianze dei colleghi che hanno sostenuto prove simili descrivono uno scenario di sacrifici estremi e pericoli concreti. Un docente racconta di essere uscito dalla scuola senza pranzare, in corsa verso un concorso in un paese di montagna, guidando da solo tra strade sconosciute e poco segnalate. Un’altra collega ricorda una partenza alle 4 del mattino per attraversare la Sicilia, dopo una notte passata a preparare la lezione simulata. Il giorno dopo, nonostante tutto, era regolarmente a scuola a insegnare.
“Non puoi essere lucido dopo una nottata a preparare una lezione”, scrive un docente. Un altro aggiunge: “Rientravo da 45 km di autostrada, ho sbagliato casello per stanchezza, poteva andare peggio come per Alessandra”. Le testimonianze parlano di una scuola che pretende disponibilità totale, anche a rischio della salute e della vita.
Un sistema che spezza e scoraggia
Molti racconti convergono sulla sensazione di essere spinti al limite, emotivamente e fisicamente. Una docente ricorda i tempi del TFA: “Lavoravo, studiavo, ero madre single a 700 km da casa. Correvamo sempre”. La fatica non si dimentica: “Mi torna il brivido ogni volta che ci penso”. Alcuni parlano di lezioni simulate da preparare in 24 ore, spesso inutili dal punto di vista valutativo, ma vissute come prove determinanti per il futuro.
L’assenza di tutele, la mancanza di ristori, la pressione costante: tutto ciò contribuisce a un clima oppressivo, dove l’errore non è contemplato, il disagio non è ascoltato e la fatica non è riconosciuta. Il prezzo della precarietà non è solo economico, ma esistenziale, e il dolore di chi rinuncia è tangibile: “Non spendo 800 euro di affitto per lavorare a 180 km da casa. Non ho nessuno. È troppo anche per me”.
Una domanda sospesa: vale la pena?
Alcuni commenti colpiscono per la loro lucidità amara: “Vale ancora la pena fare il docente? A me non sembra più un lavoro da sognare a ogni costo”. La percezione è di essere in trincea, in un conflitto continuo tra sacrifici e mancanza di riconoscimento. Le parole più dure arrivano da chi ha deciso di rinunciare al ruolo, di dire basta a una carriera che logora e isola.
Le storie di Alessandra e di tanti altri dimostrano che non basta la passione per reggere un sistema che chiede tutto senza dare nulla in cambio. Questa morte, per quanto assurda e tragica, ha fatto emergere una verità ignorata: la scuola italiana non può più permettersi di ignorare il costo umano della precarietà.