Silvia, docente precaria fuori sede con due figlie cresciute a distanza: 'Scelgo tra il pane e la speranza'
Silvia, docente precaria e madre sola, racconta la fatica quotidiana tra incarichi lontani, figli a casa, malattia e abilitazioni tutte a carico


La storia di Silvia, docente precaria e madre sola, racconta la durezza di chi prova a costruirsi un futuro nella scuola tra sacrifici, malattia e solitudine. Dalla Campania al Nord Italia per lavorare, affronta ogni giorno la distanza dalle figlie e i costi di un sistema che non tutela chi è ai margini. Il lavoro precario diventa così una lotta quotidiana per la dignità
Una laurea conquistata di notte, per essere oggi un docente precaria
“Mi chiamo Silvia, ho quasi 40 anni e cresco da sola due figlie adolescenti.” La sua testimonianza inizia così, con un’immagine netta di responsabilità e precarietà. Ha creduto nel valore dell’istruzione come strumento di riscatto, per sé e per le sue figlie. Grazie al reddito di cittadinanza è riuscita a riprendere gli studi universitari, studiando di notte e lavorando ogni volta che poteva. Ogni centesimo risparmiato è stato un passo verso la laurea. Il suo sogno era insegnare, ma il percorso che l’ha portata fin qui è stato costellato da ostacoli invisibili e silenziosi, che nessun contratto a tempo determinato può cancellare.
Lontana da casa per lavorare a scuola come docente precaria
Silvia ha accettato incarichi di supplenza fuori dalla propria regione, spostandosi dal Sud al Nord, lasciando le figlie in Campania. Ogni giorno vive il senso di colpa della distanza. Il suo equilibrio è precario: affetti lontani, salute compromessa dalla fibromialgia, una rete familiare fragile. A complicare tutto, la mancanza di un’auto. Non può permettersela, e questo limite logistico diventa spesso motivo di esclusione, anche nei contesti scolastici. La mobilità, per chi non ha mezzi propri, è un ostacolo insormontabile, ignorato dalle procedure e dalle scelte amministrative.
6.000 euro per abilitarsi, da sola
La riforma dell’abilitazione ha rappresentato un’altra barriera. “Il Ministro Valditara ha deciso che dobbiamo pagarci da soli l’abilitazione”, spiega Silvia. Ha frequentato due percorsi, uno per la materia d’insegnamento e uno per l’inglese, spendendo 6.000 euro. Soldi sottratti al bilancio familiare, ai bisogni delle figlie, alle spese mediche. Senza rimborsi, senza garanzie. In questo scenario, anche un incarico rappresenta un salto nel buio. Ogni spostamento richiede organizzazione e denaro, che spesso mancano. L’idea di poter lavorare solo se si possiede un’auto è un requisito che esclude chi già parte svantaggiato.
'Se mandi la MAD devi avere la macchina'
La frase che ha segnato l’ultimo episodio è arrivata durante una chiamata dell’Ufficio Scolastico Provinciale, che proponeva a Silvia di fare da commissario esterno. Alla sua risposta “non ho la macchina”, è seguita la replica: “Se uno manda la MAD deve avere la macchina”. Per Silvia è stato un momento di umiliazione e frustrazione. Non per mancanza di competenza, ma per un’esclusione basata sulla povertà materiale. “Ha deciso lui che io non devo lavorare”, scrive. Parole dure, che esprimono il peso di sentirsi fuori da un sistema che, paradossalmente, dovrebbe promuovere l’inclusione. “Essere insegnante, oggi, significa anche questo: scegliere tra il pane e la speranza”.