Social media e lavoro: quando un post può costarti il licenziamento

Post sui social e lavoro: quando un contenuto online può costare il licenziamento. Cosa dice la legge e quali sono i limiti per i dipendenti.

18 aprile 2025 17:51
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Nell’era digitale, i social network sono diventati una parte integrante della nostra quotidianità, anche durante l’orario lavorativo. Scattare una foto in pausa pranzo, pubblicare un meme ironico o esprimere un’opinione su TikTok può sembrare innocuo, ma non sempre lo è. Sempre più spesso, comportamenti apparentemente leggeri finiscono sotto la lente d’ingrandimento dei datori di lavoro, con conseguenze anche molto gravi. Ma cosa dice la legge? Quali sono i limiti della libertà di espressione online nel contesto lavorativo? E quando un post può davvero portare al licenziamento?

Libertà di opinione e obbligo di correttezza

Esprimere le proprie idee è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione (art. 21), ma nel contesto lavorativo incontra limiti ben precisi. Il dipendente è tenuto a rispettare l’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.), correttezza e buona fede nei confronti dell’azienda (artt. 1175 e 1375 c.c.). Questo significa che ogni opinione espressa sui social deve rispettare la reputazione del datore di lavoro, evitando toni offensivi, denigratori o diffamatori.

Contenuti “ironici” ma pericolosi

Anche post apparentemente scherzosi possono risultare lesivi. Un caso emblematico è quello deciso dal Tribunale di Roma (sent. n. 6854/2023), in cui una commessa è stata licenziata per un video ironico su TikTok pubblicato durante la pausa pranzo. Il post, accompagnato da un’emoji buffa, lamentava che fosse “solo mercoledì”. Il giudice ha ritenuto il contenuto denigratorio nei confronti dell’azienda, giustificando il licenziamento.

L’impatto delle condotte extra lavorative

Non è solo l’orario di lavoro a contare. Anche i contenuti pubblicati nel tempo libero possono comportare conseguenze disciplinari, se compromettono il rapporto fiduciario con il datore di lavoro. Il Tribunale di Messina (sent. n. 2275/2024) ha confermato il licenziamento di un dipendente che, fuori servizio, aveva pubblicato video accusatori su Facebook, alimentando commenti offensivi verso l’azienda

L’apparenza inganna: costumi, meme e reazioni

Il tono ironico, l’uso di emoticon, meme o filtri non protegge da eventuali provvedimenti. Secondo la giurisprudenza, conta non solo cosa si dice, ma anche come lo si dice. Un infermiere, ad esempio, è stato licenziato per aver pubblicato sui social foto travestito da personaggio horror durante il turno di lavoro. Il Tribunale di Sassari (sent. n. 387/2021) ha ritenuto lesivo dell’immagine della clinica il comportamento, considerandolo diseducativo.

Il confine tra privato e pubblico sui social

I profili social sono considerati “luoghi aperti al pubblico”. Di conseguenza, ogni contenuto condiviso pubblicamente può essere acquisito dal datore di lavoro anche per finalità difensive. Fanno eccezione le conversazioni private su chat come WhatsApp, che sono tutelate dal principio di segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.). Tuttavia, anche in questo caso esistono eccezioni. La Corte di Cassazione (sent. n. 5334/2025) ha stabilito che un lavoratore non può utilizzare messaggi di una chat privata per denunciare un collega, poiché ciò violerebbe la riservatezza delle comunicazioni.

Critica legittima o comportamento illecito?

La libertà di critica è ammessa, ma deve rispettare i limiti della continenza espressiva: linguaggio civile, verità dei fatti, assenza di insulti o volgarità. Anche critiche fondate possono portare al licenziamento se espresse con toni e modalità inadeguate.

Social e malattia: attenzione alle contraddizioni

Una delle situazioni più comuni è la pubblicazione di contenuti incompatibili con lo stato di salute dichiarato. Allenarsi in palestra, fare viaggi o partecipare a eventi mentre si è formalmente in malattia può comportare il licenziamento. Il Tribunale di Benevento (sent. n. 1053/2024) ha giudicato legittimo il licenziamento di un lavoratore che suonava in una band mentre risultava malato. La Corte d’Appello di Roma (sent. 4047/25) ha confermato il licenziamento di un lavoratore che pubblicava video di allenamenti durante la malattia. Il Tribunale di Napoli (sent. n. 658/2025) ha licenziato un dipendente che, in permesso studio, era in vacanza in Thailandia.

Privacy, investigatori e prove social

Il datore di lavoro può incaricare investigatori privati per verificare l’attendibilità di un’assenza per malattia. I contenuti pubblici sui social possono essere utilizzati come prova senza violare la privacy del dipendente, come stabilito in diverse sentenze recenti.

Condivisioni, like e commenti: anche le interazioni contano

Non solo i post personali: anche like, commenti o condivisioni su contenuti offensivi o diffamatori possono essere interpretati come una presa di posizione attiva del lavoratore e, di conseguenza, dar luogo a sanzioni disciplinari.

Rischi di divulgazione di dati riservati

Attenzione infine alla pubblicazione di contenuti che, anche involontariamente, possano rivelare informazioni riservate. Fotografie con segreti industriali, documenti in vista o ambienti riservati possono determinare responsabilità gravi. Un esempio emblematico viene da Napoli, dove una lavoratrice è stata licenziata per aver condiviso in chat la foto di un prototipo di auto ancora non in commercio. La Corte d’Appello (sent. n. 3470/2024) ha poi annullato il licenziamento, per mancanza di prove del danno reale e di un regolamento aziendale chiaro sull’uso dei dispositivi.

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