Il quiet quitting degli studenti e la crisi del merito: la scuola del minimo indispensabile

Un’analisi del quiet quitting scolastico: studenti che rifiutano la competizione esasperata e denunciano le disuguaglianze del sistema educativo.

20 luglio 2025 10:08
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Una nuova forma di disobbedienza silenziosa sta attraversando le aule scolastiche di tutto il mondo. Dopo il fenomeno del quiet quitting nel mondo del lavoro, ora tocca alla scuola: sempre più studenti scelgono di non investire emotivamente nei percorsi di istruzione, rifiutando una competizione continua che minaccia la loro salute mentale. Un segnale d’allarme che non può più essere ignorato.

Il rifiuto della performance a tutti i costi

C’è chi ha definito questa nuova tendenza il quiet quitting della scuola. È la scelta, da parte di molti studenti, di ridurre al minimo il proprio coinvolgimento emotivo e mentale negli esami e nelle prestazioni scolastiche. Un gesto che nasce dal rifiuto di un sistema percepito come iper-competitivo e disumanizzante, in cui il successo sembra essere l’unico metro di giudizio, anche a costo del benessere psicologico.

Negli Stati Uniti questa mentalità è racchiusa nello slogan “C’s Get Degrees”: meglio puntare al minimo voto sufficiente, che logorarsi per l’eccellenza. In Brasile gli studenti usano il termine “NoDreams”, a indicare la rinuncia consapevole a sogni e ambizioni che richiederebbero prestazioni continue e stressanti. In Cina, il movimento “Be a bird” spinge gli studenti a vestirsi da uccelli, simbolo di libertà senza meta, in aperto contrasto con l’idea che gli esseri umani debbano sempre “dimostrare qualcosa”, come ha dichiarato il ventenne Wang Weihan.

Quiet quitting: un fenomeno globale, una risposta condivisa

Ciò che emerge è un fenomeno speculare al quiet quitting lavorativo: anche nel mondo scolastico si sceglie di fare il minimo indispensabile per sottrarsi a una pressione insostenibile. È in questo contesto che si inserisce il caso emblematico degli studenti italiani che hanno rifiutato di sostenere l’esame orale della maturità. Un gesto simbolico che ha suscitato molte critiche, spesso dal tono paternalista, ma che illumina una crisi strutturale del sistema educativo.

La scuola come fabbrica di capitale umano

Questa trasformazione non nasce dal nulla. Roger Abravanel, nel suo libro Meritocrazia (2008), descriveva già allora un futuro in cui l’università avrebbe avuto due obiettivi: creare poche istituzioni eccellenti a livello nazionale e monopolizzare l’accesso ai migliori lavori tramite il possesso del “pezzo di carta”. È seguendo questa logica che l’intero sistema scolastico è stato ripensato: da luogo di formazione democratica a filiera produttiva di capitale umano per il mercato.

Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: una competizione costante che inizia alle elementari e si protrae fino all’università, in cui solo i più performanti riescono a emergere, mentre gli altri vengono lasciati indietro. In questo schema, ogni fallimento non è più una responsabilità collettiva, ma una colpa individuale.

Quiet quitting: il voto come simbolo di un sistema

Un esempio chiaro di questa logica è la trasformazione della didattica in un sistema di obiettivi quantificabili. Si misura l’output — le competenze degli studenti — ma si dimentica l’input: che cosa si insegna e perché. Così, ogni studente viene inserito in un ranking continuo, e il voto diventa il simbolo visibile di una valutazione incessante.

Ma dietro il voto c’è di più: c’è una scelta politica precisa, che ha abbandonato l’idea della scuola come strumento di uguaglianza sociale. Da Condorcet in poi, l’istruzione universale e gratuita era vista come mezzo per ridurre le disuguaglianze. Oggi, invece, la scuola si configura come un meccanismo di selezione: non si entra nei corsi universitari in base al merito, ma in base ai posti disponibili, mentre si attribuisce agli studenti la responsabilità del loro insuccesso.

Dal sogno democratico al filtro sociale

In questa logica, l’istruzione non è più veicolo di emancipazione, ma un filtro per separare i “migliori” dai “peggiori”, secondo la visione dell’economista Kenneth J. Arrow della Scuola di Chicago. Quando uno studente come Pietro Marconcini chiede che il suo voto di maturità venga abbassato al minimo, sta denunciando proprio questa ingiustizia. Il suo gesto è un rifiuto consapevole di un sistema che amplifica le diseguaglianze invece di ridurle, e che decide precocemente chi merita un futuro e chi no.

L’ansia come sintomo sistemico

Alla luce di tutto ciò, non stupisce che, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, gli studenti italiani siano tra i più stressati d’Europa. Il 75% afferma di vivere una condizione di stress causata dalla scuola, e il 60% ha paura del fallimento. Ma il problema non è la fragilità degli studenti: è un sistema che li opprime e che scarica su di loro le colpe di un mercato del lavoro in crisi e di un futuro sempre più incerto. È facile, per il Ministro dell’Istruzione, invitare gli studenti ad affrontare le “grandi sfide della vita”. È molto più difficile, però, garantire che al termine degli studi li aspetti qualcosa di più di un lavoro da mille euro al mese, dell’emigrazione o della disoccupazione giovanile al 22,8%.

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