Docente per l’inclusione: non basta cambiare nome, serve cambiare la scuola

Il cambio di nome da “sostegno” a “inclusione” non basta: serve una rivoluzione culturale e didattica per rendere la scuola inclusiva.

10 ottobre 2025 12:24
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Il passaggio da “docente di sostegno” a “docente per l’inclusione” rappresenta un segnale politico, ma non una vera riforma. L’inclusione scolastica non si realizza con le parole, ma con le pratiche. Senza una trasformazione culturale e didattica condivisa, il rischio è di restare ancorati a un modello delegante e inefficace.

Il problema non è il nome, ma la delega

L’Italia dispone di un impianto normativo avanzato per l’inclusione, fondato sulla Legge 104/92 e sul PEI ispirato al modello ICF. Tuttavia, tra la legge e la realtà delle classi esiste un divario profondo. La figura del docente specializzato continua a essere percepita come “responsabile” dell’alunno con disabilità, mentre il resto del consiglio di classe si limita a delegare. Questa distorsione culturale trasforma la contitolarità in isolamento, vanificando il principio di corresponsabilità educativa.

L’inclusione non è una materia “a parte”, ma una modalità trasversale di fare scuola. Significa progettare insieme, adattare le lezioni, diversificare i percorsi e valutare con criteri equi. Cambiare la denominazione del docente senza modificare l’approccio collegiale e metodologico è solo un maquillage linguistico. Serve una rivoluzione nella mentalità e nelle pratiche didattiche, non una riforma terminologica.

Formazione e corresponsabilità per una vera inclusione

La chiave del cambiamento risiede nella formazione universale dei docenti, non solo in quella specialistica. Tutti gli insegnanti, indipendentemente dall’ordine di scuola o dalla disciplina, devono acquisire competenze sulla didattica universale per l’apprendimento (UDL), sulla lettura del modello ICF e sull’uso di strategie flessibili e cooperative. L’inclusione non può restare un’abilità opzionale, ma deve essere un pilastro della formazione iniziale.

Occorre poi valorizzare le competenze già presenti nel corpo docente, creando reti interne di docenti esperti in grado di affiancare i colleghi. Un sistema di specializzazione diffusa e riconosciuta può alleggerire il carico del singolo docente per l’inclusione, trasformandolo da figura di supporto a catalizzatore didattico capace di orientare la progettazione di tutta la scuola.

Dall’assistenza alla progettazione condivisa

Il docente per l’inclusione deve evolvere da semplice supporto individuale a figura strategica per la qualità dell’insegnamento. Il suo compito non è supplire, ma prevenire le barriere, co-progettare le attività, costruire strumenti accessibili e aiutare la scuola a essere più equa per tutti. Solo così la presenza del docente specializzato diventa leva di innovazione e non stampella di un sistema fragile.

Cambiare il nome può avere un valore simbolico, ma non incide sulla quotidianità delle classi. L’inclusione non si scrive nei documenti, si costruisce nelle relazioni, nella progettazione condivisa e nella formazione continua. Se non si riconosce la contitolarità dell’inclusione come fatto didattico e non assistenziale, si tradisce lo spirito stesso della Legge 104/92. Una scuola è davvero inclusiva non perché accoglie la diversità, ma perché impara da essa.

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